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“SOPRAVVISSUTI AL FULMINE: I “GRANICEROS” DEL MESSICO” – Maurizio Romanò

“SOPRAVVISSUTI AL FULMINE:  I “GRANICEROS” DEL MESSICO” – Maurizio Romanò

di Maurizio Romanò  Scarica Ebook

Avevo ottenuto dal Governo Messicano una borsa di studio per effettuare delle ricerche antropologiche sulla medicina popolare. Mi trovavo ormai da oltre un mese in Messico, nello Stato di Morelos per la precisione, visitando i numerosi villaggi della zona alla ricerca di guaritori, e di informazioni su tradizioni e rituali terapeutici e religiosi legati al tema di cui mi stavo occupando. L’Instituto Nacional de Antropología e Historia, attraverso i suoi ricercatori, la biblioteca e la struttura amministrativa situati nella città di Cuernavaca, mi forniva il necessario supporto logistico per poter realizzare le ricerche sul campo.
Trattandosi di una ricerca sulle tradizioni mediche popolari, i luoghi migliori per poter raccogliere informazioni, dati, racconti, e incontrare guaritori, erano le località più isolate, dislocate a ridosso dei monti. Poiché non possedevo un’automobile, gli autobus locali erano l’unica possibilità che avevo per uscire dalla città. In quei luoghi poco abitati, in genere spostamenti anche brevi richiedevano diverse ore di viaggio. Questo perché i piccoli autobus lasciavano la città in cui risiedevo percorrendo strade secondarie, strette e sinuose, che si inerpicavano per raggiungere gli abitati più remoti.
Questi veicoli dal motore sporgente erano molto più piccoli, fuori come dentro, di un normale autobus di linea. I sedili, minuscole panche dalla struttura tubolare sulle quali veniva fissato un ripiano in legno, erano per me inutilizzabili. La distanza fra una panca e l’altra era così ridotta che proprio non sapevo dove infilare le mie lunghissime gambe. L’altezza del tetto, o meglio la ‘bassezza’, mi costringeva a mantenere costantemente il capo chino ogni qualvolta salivo in vettura. È possibile immaginare la mia sofferenza quando, con il veicolo strapieno di persone, animali e mercanzie, mi capitava di restare in piedi durante tutto il percorso, cosa abbastanza normale nei giorni di mercato. Per me, che sono alto un metro e novanta centimetri, un viaggio di alcune ore su un mezzo del genere era un vero supplizio.
E una volta giunto a destinazione spesso non era possibile fermarsi che poche ore, perché mancavano pensioni o altri luoghi che offrissero ospitalità. La prospettiva migliore quindi era di attendere il ritorno dello stesso autobus che verso sera ritornava in città.
Salvo qualche rara eccezione questi piccoli villaggi si assomigliavano tutti. La strada asfaltata si interrompeva all’ingresso dell’abitato per lasciare posto a una rete di stradine sterrate piene di buche. Le poche automobili che vi scorrazzavano giornalmente venivano sistematicamente distrutte dal fondo sconnesso; ammortizzatori, coppe dell’olio, marmitte e quant’altro trova posto sul fondo del veicolo era destinato ad avere vita breve. Le vie erano transitabili con difficoltà da una normale automobile nella stagione asciutta, quasi impossibili da percorrere nella stagione delle piogge.
Di tanto in tanto davanti a un’abitazione appariva un tratto lastricato, segno che il proprietario della casa possedeva un automobile e aveva provveduto personalmente a riparare qualche metro di strada. Ma poco più in là tutto ritornava come prima.

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