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“LA SACRALITA’ DEL SIMBOLO FALLICO” di Tiziana Ciavardini

“LA SACRALITA’ DEL SIMBOLO FALLICO” di Tiziana Ciavardini

di Tiziana Ciavardini

Nel mondo antico e classico e successivamente nella cultura greco-romana, il simbolo fallico era ritenuto l’origine della vita, in quanto considerato il generatore del seme. Studi antropologici e storico-religiosi attestano concordemente che il culto dell’organo riproduttivo maschile veniva associato al culto della fertilità in quanto sede del potere generativo della natura e della fecondità. Il termine fallo deriva dal latino phallus, dal greco phallós, da connettersi alla radice del sanscrito phalati (= germogliare, fruttificare) o alla radice phal (= gonfiare). Nelle religioni pagane, il fallo era il simbolo cosmogonico del membro virile in erezione, cui venivano dedicati riti e preghiere, e per secoli è stato oggetto di potere, tabù e mistero. Il simbolo fallico ritenuto l’origine della vita, in quanto considerato il generatore del seme venne trasformato in divinità in alcune civiltà antiche.

Dal fallo  della Roma antica  alla decapitazione del nemico
Nell’arte romana, il fallo veniva spesso raffigurato in affreschi e mosaici, generalmente posti anche all’ingresso di ville ed abitazioni patrizie. Il pene eretto era infatti considerato un amuleto contro invidia e malocchio. Inoltre, il culto del membro virile eretto, nella Roma antica era molto diffuso tra le matrone di estrazione patrizia a propiziare la loro fecondità e capacità di generare la continuità della gens. Per questo, il fallo veniva usato anche come monile da portare al collo o al braccio. Il culto del fallo é stato spesso collegato alla fertilità in quanto simbolo di potere generativo.
Presso i Dayak del Borneo il culto della testa o meglio il culto della decapitazione della testa del nemico, aveva un’intima relazione con la promozione della fertilità umana e con i raccolti abbondanti. L’antica comune concezione europea della caccia alla testa come una pratica barbarica, sintomatica di uno stadio evolutivo di primitiva selvaggeria, è da molto tempo stata messa da parte e numerosi studiosi hanno dato una propria opinione della motivazione di questa pratica. La caccia alle teste era parte di feudi tra gruppi interni e guerre territoriali per l’espansione e per la competizione. In questo senso si potrebbe sostenere che fosse un’espressione di relazioni politiche tra gruppi; questi processi anche se fornivano una motivazione significativa per la caccia alle teste, non hanno comunque dato una risposta esaustiva al perché fosse proprio la testa a venire tagliata e trattata ritualmente. Tagliare la testa del nemico e portarla al villaggio come trofeo erano elementi vitali di un complesso di credenze pratiche riguardanti l’anima, la vita, la morte e la fertilità. Sebbene queste pratiche siano state eliminate dalle potenze europee, molti Dayak continuano a compiere questo tipo di rituali utilizzando i teschi di animali e a mantenere l’idea della potenza fecondatrice della testa tagliata. Tra gli antropologi si è a lungo dibattuto sui processi simbolici che connettono il taglio delle teste con la fertilità. Alcuni studiosi come Hutton (1938) e Izikowitz (1941) hanno sostenuto che le credenze indigene facessero risiedere l’anima umana o la concentrazione della soul-substance (sostanza dell’anima) nella testa. Catturando una testa e portandosela nella propria comunità, si accumulavano più sostanze dell’anima o energie vitali che contribuivano al benessere proprio, dei propri parenti e dell’intero villaggio.
Esisteva perciò un elemento spirituale che veniva trasferito da una comunità all’altra e che era responsabile di rendere fertili gli esseri umani, i campi e gli animali. L’elemento spirituale si pensava dunque risiedesse nella testa.

Il trofeo della testa come simbolo di potere generativo
Uno scrittore in particolare Derek Freeman (1979) propose una diversa e singolare teoria secondo la quale la testa avrebbe avuto una connotazione fallica. La testa-trofeo era dunque simbolo di potere generativo della natura; essa era perciò collegata simbolicamente e spiritualmente al culto del riso e alla fertilità del raccolto. L’autore ripropose un’allegoria Iban (uno dei più noti gruppi Dayak) secondo la quale la testa del nemico, una volta aperta, avrebbe contenuto qualcosa che non era identificabile né con la sostanza vitale né con l’anima, ma semplicemente con dei ‘semi’. Con la sua teoria si richiamò alla credenza degli antichi greci, secondo i quali la psiche era presente in forma di un seme, o semen, e che la psiche stessa fosse a sua volta contenuta nel teschio e nella colonna vertebrale sotto forma di ‘midollo generativo’. La testa e i genitali maschili venivano quindi considerati i principali depositari di questo potere generativo. Supponendo che il seme venga identificato con lo sperma maschile e il ruolo dei tagliatori di teste fosse identificato con il loro ruolo biologico di padri e progenitori: l’equazione tagliare una testa per impossessarsi di potere generativo e tagliare la testa per appropriarsi del simbolo fallico è evidente.
Per avvalorare e comprovare questa equazione Freeman cita alcuni esempi dal mondo antico come la concezione romana di Genius, la Mitra di Osiride, il cappello frigio di Mitra e la testa fallica di Siva. Spesso un’immagine ricorrente, nella caccia alle teste Iban è il ritratto della testa-trofeo visto come un ‘frutto’ e l’immagine ricorrente più usata è quella di Igi Ranyai, il seme della palma del Ranyai. La palma del Ranyai non esiste veramente, perlomeno non nel mondo empirico, ma è invece una mitica palma che si crede cresca nel Sebayan, la terra dei morti degli Iban. Questo frutto, quando è maturo, cade al suolo e si trasforma in teste umane. La sequenza è di certo un’allegoria della caccia alle teste: tagliare la palma Ranyai e tagliare i suoi frutti che contengono semi rappresentano la ferita mortale del nemico, la sua successiva decapitazione e l’appropriazione da parte della terra del potere generativo sotto forma di semen. Nell’antica pratica della caccia alle teste si potrebbe dunque scorgere una diversa motivazione simbolica nella quale la testa era considerata sacra, tanto quanto sacro era considerato il fallo. E’ forse per questo motivo che la testa veniva trattata con rispetto onde evitare il disperdersi del ‘potere generativo’.