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“IL SEGRETO DELLA TEMPESTA” di Paolo Cortesi

“IL SEGRETO DELLA TEMPESTA” di Paolo Cortesi

L’antico culto di Iside, celato in un vecchio quadro di Zorzi de Castelfranco, alias Giorgione, è la rappresentazione del perenne ciclo dell’esistenza: morte e vita che si succedono senza fine per mezzo della potenza demiurgica.

Nel 1530, il letterato veneziano Marcantonio Michiel visitò il “camerino delle anticaglie” di Gabriele Vendramin, un raffinato collezionista d’arte. Michiel, che stava compilando una specie di catalogo delle opere d’arte più importanti esistenti in Venezia e nel palazzo Vendramin, vide un piccolo dipinto a olio. E così lo descrisse: «El paeseto in tela cun la tempesta cun la cingana [zingara, Ndr] et soldato fo de man de Zorzi de Castelfranco».
Queste poche parole sono la prima traccia documentaria di un quadro che ancora oggi rappresenta un enigma: cosa rappresenta? Chi sono i personaggi raffigurati? Qual è l’autentico messaggio che Zorzi de Castelfranco – ma oggi lo chiamiamo Giorgione – volle affidare a quella immagine di inquietante, silente bellezza?

Ciò che vediamo è infatti una scena apparentemente assurda: a sinistra, un uomo vestito si appoggia a un lungo bastone. Alle sue spalle, un muretto sbrecciato su cui stanno due colonne spezzate. Più dietro ancora, oltre la bassa vegetazione e accanto a esili alberelli, vi sono alcuni ruderi con crepe vistose.
Divide la scena un corso d’acqua, scavalcato sullo sfondo da un ponte di legno. Nella parte di destra è seduta una giovane donna quasi completamente nuda che allatta un bambino. Dietro di lei, una foltissima vegetazione e un albero dal grosso duplice tronco.
E più dietro ancora, sullo sfondo, si estende un paesaggio di case dipinto con la precisione di una miniatura: sulla sinistra un edificio con cupola, al centro due torri vicine, a destra una grossa casa sul cui tetto è dipinta una minuscola fenice.
Nel cielo congestionato da tumide nuvole scure, appare il guizzo luminoso di un fulmine.
Questa, in estrema sintesi, è la celeberrima Tempesta di Giorgione: una scena al tempo stesso naturalistica e irreale, soffusa di pacata serenità eppure paradossale, opulenta di dettagli e notazioni ma controversa, ambigua al limite della incomprensibilità.
Michiel ci ha lasciato la sua lettura di grado zero, limitata cioè a descrivere gli oggetti che sono effettivamente raffigurati: vede un giovane con una lunga asta, brache e giubba che possono benissimo essere state uniforme cinquecentesca: è un soldato. Vede una donna seminuda seduta a terra che porge la mammella a un bambino: è una zingara.
Ma questo elenco neutro di figure non ci dice nulla sulla ragione profonda del quadro, sul suo senso. Davanti a tante indicazioni straordinarie è impossibile non pensare a un’allegoria, a un messaggio criptico, un geroglifico.
Forse quest’ultimo termine – geroglifico – è quello che più si addice per la Tempesta. Geroglifico nell’accezione rinascimentale: non elemento fonetico di una lingua bensì pittogramma emblematico, immagine che si sostituisce alla parole, anzi le supera in un valore più elevato, più vicino all’essenza platonica dell’idea.

Le diverse interpretazioni
E proprio per svelare il concetto racchiuso in questo piccolo, splendido quadro, decine e decine di studiosi si sono confrontati con il messaggio di Giorgione (o del suo committente) e hanno proposto quasi un centinaio di interpretazioni diverse.
Mi sembra decisamente inutile, e anche un po’ noioso, citare tutte le varie ipotesi, alcune delle quali così erudite da sembrare più adatte alla storia dell’enigmistica che a quella dell’arte: si va da Deucalione e Pirra (ipotesi dello Schrey, 1915) alla nascita di Apollonio di Tiana (Hartlaub, 1953), al ritrovamento di Paride (Eisler, 1925) o di Mosè (Calvesi, 1962, che però poi cambierà opinione e ci vedrà “la copula del cielo con la terra”).

Torniamo dunque a osservare  il quadro
Anche a un primo sguardo rivela la sua struttura bipolare: a sinistra troviamo un nucleo di significati; a destra un altro. La divisione dei due settori ci viene certificata dal fiume che scorre al centro. Il ponte – di legno, si noti, non di pietre o mattoni – mostra che le due parti, pur chiaramente distinte, sono comunicanti. Dividiamo idealmente il dipinto in due parti uguali, tracciando la mediana della sua larghezza. Questo espediente, così semplice, ci mostrerà cose davvero interessanti.
A sinistra troviamo il settore saturniano, ovvero del tempo che distrugge, del decadimento e della consunzione.
Vi troviamo elementi iconografici che hanno, tutti, questo significato: sullo sfondo più remoto. Vi è un edificio con cupola, molto più arcaico rispetto alle case del settore destro; quindi vediamo dei ruderi affiancati da alberi esilissimi. Oltre una macchia verde (molto più esigua del folto boschetto di destra), appare un muretto antico con grandi crepe e le due colonne spezzate. Già il Ferriguto, nel 1922, aveva compreso che le colonne erano un elemento indicante la caducità. E al concetto di morte a proposito delle colonne giunse anche De Minerbi nel 1939.
Tuttavia, nessun critico aveva colto nella sua interezza il codice iconografico: i ruderi, la vegetazione scarsa e patita: elementi che conducono senza dubbio all’idea di decadimento, distruzione, desolazione.
Nel settore sinistro, gli edifici cadono in rovina e la Natura deperisce perché è il lato del quadro posseduto dalla Morte. L’elemento più strano, quasi eccezionale, di questa parte è il giovane uomo. Un vecchio dalla barba bianca e le spalle curve sarebbe stato un’indicazione più facile. Forse troppo facile.
Ma la dicotomia è comunque affermata: a uomo vestito si contrappone donna nuda. E ancora: gli esami radiografici hanno mostrato che, in una prima stesura, Giorgione aveva dipinto anche qui una donna nuda, ma la corresse e la sostituì con il giovane; perché? Perché così mostrava con maggior chiarezza – pur senza violare la reticenza del geroglifico – la contrapposizione dei due settori.
La linea centrale coincide precisamente con la più grande fessura del rialzo di terra su cui siede la donna; tale spaccatura indica lo iato esistente tra i due settori. La linea mediana divide in due parti uguali la campata centrale del ponte e corre esattamente in mezzo alle due torri gemelle sullo sfondo. Indicazioni così geometricamente definite, provano che la linea centrale ha il compito di dividere in due parti la Tempesta, ed è verosimile che lo stesso Giorgione abbia segnato questa linea nel cartone preparatorio.

Distruzione e rigenerazione, il ciclo infinito
Se il settore sinistro è quello della Distruzione e il destro è quello, come vedremo, della Rigenerazione, la stretta fascia centrale è all’insegna della Separazione. Il corso d’acqua serpeggia tra i due settori, s’incunea ora nell’uno ora nell’altro: simbolo della compenetrazione dei due elementi, della inesauribile ciclicità di Morte in Vita e di Vita in Morte, simbolo dell’alternanza incessante di Essere e Non-Essere nel Divenire riscoperto dal Rinascimento.
E il ponte (di legno, non di pietra, dunque di materiale “vivo”, “naturale”) unisce i due settori, rimarcandone la diversità ma al contempo la vicinanza.
Nella parte di destra si trovano tutte le indicazioni che esprimono Vita e Rinascita.
La vegetazione, qui, è rigogliosa e folta; la donna nuda che allatta è il simbolo più chiaro della forza generatrice. Va notato qui un altro particolare di enorme interesse: davanti alla nuda, sul rialzo del terreno, ci sono due arbusti: uno, a sinistra, è secco, avvizzito, gracile; l’altro, a destra, è alto, rigoglioso, verde, con foglie che sembrano confondersi con il corpo della donna, su cui si estendono come un saldo reticolo venoso che porta una linfa vitale.
Lo sfondo del settore di destra è occupato da case che, all’epoca in cui Giorgione dipinse il quadro (i primissimi anni del ‘500), erano moderne. Risalta la grande differenza tra queste case, dentro le quali immaginiamo una vita quotidiana e le vetuste rovine sull’altro lato.
Sul tetto spiovente di una di queste case è dipinto un particolare di appena sei millimetri: una fenice. Dimostrare che la figurina di volatile sia sicuramente una fenice è impossibile; così come è impossibile dimostrare il contrario. E tuttavia, cos’altro dovrebbe essere?
Certo non una cicogna, come hanno scritto alcuni: nell’iconografia del tempo, le cicogne erano rappresentate accanto a grandi nidi (che qui non sono) e con lunghissime zampe (e qui non è).
Che il misterioso volatile sia una fenice non lo prova tanto la figura stessa, quasi illeggibile nella sua esiguità. Lo prova, piuttosto, il contesto in cui si trova, nel quale tutto testimonia della Rinascita della Natura.
E sulla destra, ma significativamente vicino al centro, ecco il fulmine: remotissima eppure incombente scintilla di potenza fecondante, fuoco che non devasta ma agita l’immensa mole della materia inerte per sollecitarla alla Generazione. È un dio visibile, quel fulmine che guizza immobile in un cielo sconvolto. È la potenza del Cosmo che si fa atto, nel tempo e nello spazio e dà origine alla successione eternamente ciclica della Morte e della Nascita.

Manoscritti segreti e il culto di Iside
Quando Giorgione dipinse la Tempesta, in Venezia (e non solo) era celebre e diffuso uno strano romanzo, pubblicato pochi anni prima (1499) da Aldo Manuzio: la Hypnerotomachia Poliphili. Opera del frate veneziano Francesco Colonna, la Hypnerotomachia è una fluviale, labirintica, intensa storia che narra la dedizione di Polifilo per Polia, ma che nasconde – sotto la trama di una travagliata vicenda d’amore – un appassionato inno all’antico culto di Iside, la dea della rigenerazione e della potenza creatrice, della fecondità e della continuità della vita.
Sotto Caracalla (211-217 d.C.), il culto di Iside era religione di stato, tanto era praticato in tutto l’Impero Romano. Nel IV secolo dopo Cristo, il cristianesimo divenne religione ufficiale e iniziò la distruzione sistematica di tutti i templi pagani; la religione di Iside era la più odiata perché la più popolare. Nel 536, Giustiniano ordinò la chiusura dell’ultimo tempio isiaco, nell’isola di File, sul Nilo.
Tuttavia molti elementi isiaci sopravvissero e confluirono nel cristianesimo, in particolare in certe forme di adorazione della Vergine, che per esempio ebbe l’appellativo isiaco di “madre di dio”.
Iside divenne, nel tempo, il fulcro di una scuola di pensiero; la sua presenza si fece umbratile ed esoterica (per evitare i rigori della chiesa cattolica), si occultò fra allusioni e simbologie arcane, ma non sparì, continuando a essere un motivo centrale della nuova spiritualità neoplatonica e neopitagorica.
Non è qui possibile esporre con sufficiente ampiezza tutta la complessa valenza della riscoperta di Iside nel Rinascimento, per questo mi permetto di rimandare il lettore a un mio libro in cui ne parlo diffusamente: Manoscritti segreti (Newton Compton, 2003 e 2005).
Però qui occorre dire che nel XVI secolo, la Natura – dopo gli anatemi medievali – aveva assunto l’aspetto (concettuale ma anche iconografico) di una donna assolutamente isiaca, così come isiaco era il clima intellettuale del tempo, con l’idea fondamentale del Cosmo quale organismo vivente e sensibile che conserva nella materia la favilla divina che lo anima.
Il mondo rinascimentale non è più il baratro oscuro in cui brulica il peccato, ma è un luogo ameno, ampio, luminoso, vivo, perché in esso è presente lo spirito divino che lo creò. E la morte non è più il fine fisico e morale dell’esistenza, ma un passaggio che conduce a una vita successiva, in una eterna successione di nascite, grazie all’infinita potenza generatrice della Natura.
Nella Hypnerotomachia è descritta una scena che ci richiama alla mente la Tempesta: i due protagonisti sono ammessi alla presenza della dea Venere (un altro nome di Iside) che sta allattando un bambino. La scena narrata continua con il bagno di Venere-Iside in un ruscello. La dea, poi, raccoglie rose bianche e rosse (rappresentano i due stati della materia vivente, prima e dopo la morte-rigenerazione): sarà solo una coincidenza il fatto che l’uomo della Tempesta indossi un abito bianco e rosso?
La scena che conclude la prima parte del romanzo, e che ne rappresenta un punto cruciale, nasconde un culto di adorazione di Iside. È ovvio che il domenicano Francesco Colonna non poteva esprimerlo chiaramente, per questo ha nascosto il tema profondo sotto la rappresentazione di una storia fantastica.
Non è inverosimile supporre che Giorgione (o il suo committente, Gabriele Vendramin) abbia voluto raffigurare in un prezioso dipinto una traduzione artistica, libera ma non infedele, di quella scena indubbiamente isiaca, che costituiva il manifesto teorico della filosofia naturale del Cinquecento.
La Tempesta rappresenta dunque il perenne ciclo dell’esistenza: morte e vita che si succedono grazie alla potenza demiurgica divina, immanente e non più trascendente (il fulmine è parte del paesaggio, al suo centro, culmine del triangolo formato dall’uomo a sinistra e dalla donna a destra, in basso). La donna che allatta è Iside e l’uomo è un adepto ai misteri isiaci.
E il paesaggio – lo straordinario paesaggio – che rappresenta la vera anima del quadro, la raffigurazione simbolica del Cosmo, così come venne scoperto e amato, dall’uomo rinascimentale.

di Paolo Cortesi