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“IL CONFINE SPIRITUALMENTE SCAVALCABILE TRA DUALISMO E UNITA’ DELLA MENTE-CUORE” di Grazia Marchianó

“IL CONFINE SPIRITUALMENTE SCAVALCABILE TRA DUALISMO E UNITA’ DELLA MENTE-CUORE” di Grazia Marchianó

La mente umana è conformata in modo dualistico perché dualistica è la struttura biologica del cervello. Le dottrine e le pratiche meditative di alcune tradizioni spirituali, in particolare buddhiste, testimoniano che il dualismo con le sue dicotomie concettuali può essere scavalcato ed è possibile rasentare, e in certi casi financo raggiungere l’esperienza di una mente unificata. Questa esperienza consente di vivere sulla propria pelle l’unità di fondo di mente e natura, che corrisponde all’unità  scientificamente  dimostrata sul piano cosmico, di materia e energia.

Esiste forse una linea di demarcazione dello spirituale? La domanda contiene un’insidia perché il solo dire spirituale, porta con sé una sbarra che lo isola da tutto quanto si ritiene diverso. Come se al confine tra i mondi “spirituale” e “materiale” ci fosse un doganiere, pronto ad alzare o abbassare la sbarra, a seconda dei casi. Ma esiste un criterio di discrimine che sia attendibile sotto ogni cielo, dentro ogni cuore?
Qualcuno, interrogato in proposito, ha fatto zampillare una bella metafora: spirituali (pneumatikói) sarebbero i “raccoglitori di scintille” o forse, mi verrebbe di dire, coloro che sanno suscitarle nel cuore: il loro e quello altrui. Le scintille sprizzano luce, e se la spiritualità consistesse in luce, la presenza o l’assenza di luce interiore segnerebbe la sbarra, un discrimine vidimato in pieno dalla formula armena di saluto tradizionale. A chi s’incontra per via, invece che “Salve!”, si dice: Barì Luìs (Buona Luce!), prima di tirare dritto.

Si vede bene che non è facile venire a capo della questione. Infatti una luce spirituale può essere suscitata da un componimento poetico, un brano letterario, una partitura musicale, un dipinto, un pensiero puro, ma anche da un arcobaleno, un fiume, un bosco, una farfalla o una circostanza, una coincidenza. E poi una preghiera, un dono, un’offerta, un sorriso, una sorpresa, la guarigione da un tormento. Questo, e molto altro, può essere portatore di scintille. Sicché il discrimine cessa di riguardare categorie simili o dissimili, ma investe il succo delle cose stesse e il loro riverbero nel cuore umano.

Satya, l’essenza della verità
La vera spiritualità è ciò che non discrimina tra terra e cielo, interno ed esterno, io e altri da me. Qualcosa di analogo avviene quando ci si interroga meditativamente sul sacro: le sacré, the sacred, das Heilige, un concetto del tutto evasivo se visto in astratto, ma riconoscibile ed esperibile ovunque ci sia un uomo che se ne sente ghermito e che, credente o no in un Dio creatore o altra entità suprema, è spinto a domandarsi se l’esperienza di un “totalmente Altro” (ganz Anderes), definita fascinosa e tremenda da autorevoli teologi e storici delle religioni europei,1 non sia semplicemente il modo in cui affiora e prende forma quello che in sanscrito si chiama sat (satya), “essere-e-verità” adunati nella percezione ininterrotta della vita.

In uno dei suoi aforismi, il maestro indiano Nisargadatta Mahārāj affermava: «La natura è una, la realtà è unica. Ci sono gli opposti, non l’opposizione».2 E ancora: «Quando nella mente “io sono” e “Dio è” diventano indistinguibili, ti accade qualcosa: scopri che Dio è perché tu sei, tu sei perché Dio è».
Nella loro semplicità letterale i due aforismi squadernano l’ABC di un sistema, il vedānta advaita, (a-dvaita= non duale) che ammaestra a riconoscere gli opposti come costrutti mentali, utili quanto si vuole nello svolgimento della vita ordinaria, ma strutturalmente incapaci, proprio perché “opposti”, di far accedere la mente a una cognizione onnicomprensiva delle cose ultime. E quando ancora Nisargadatta afferma: «La consapevolezza è primordiale, è lo stato originale, senza inizio, senza fine, non causato, non sostenuto, senza parti né mutamento», l’invito è ad addentrarsi sempre più a fondo al di là della soglia del pensiero, come «una mente che guardi nella mente».3 Per chi riesce a spingersi in uno stato lucido e intemerato di consapevolezza, così sostengono coloro che l’hanno raggiunta, la saldatura ancestrale di se stessi e il Cosmo, si rende evidente e tangibile come il proprio stesso respiro.

La barriera che non esiste
Ciò induce a concepire il sacro piuttosto che  uno squarcio o un’irruzione dall’alto, come un’esperienza uniwtiva, dove i confini tra mente e natura si riconoscono altrettanto convenzionali quanto quelli di una barriera posta a separare territori. Territori la cui esistenza e configurazione non dipende minimamente da un verdetto che ne sancisce la rispettiva estraneità o il confine. Il paragone diviene trasparente in un racconto di Boris Pasternak, La giovinezza di Zenja Ljuvers4, dove i viaggiatori di un treno diretto dalla Russia nei territori asiatici si affollano al finestrino messi sull’avviso che tra qualche momento potranno vedere di sfuggita il cippo con l’iscrizione “Asia”, che segna la linea di confine tra i due continenti. Mentre il treno attraversa un bosco di ontani, Zenja, la protagonista, e i compagni di viaggio, trepidano immaginando un po’ puerilmente di scorgere di lì a poco qualche segno che annuncia una terra diversa, non più russa ed europea, ma asiatica e ormai orientale. Nonostante la velocità del treno sia moderata, nessuno dei viaggiatori riesce a intravedere altro che una sagoma in fuga, salutata da grida eccitate e uno sventolio di fazzoletti dai finestrini. Una vaga delusione s’impossessa di Zenja: nella parte asiatica il bosco è lo stesso bosco dell’altra parte, gli uccelli che volano sui rami, trascorrono dagli alberi “russi” a quelli “asiatici” con perfetta disinvoltura, e l’idea di una frontiera fisica decade istantaneamente. L’episodio del cippo nel racconto di Pasternak aiuta ad accostare un sacro pensato e vissuto come un’esperienza interiore di spazio illimitato, del tutto equivalente a una geografia fisica senza confini.

Un ragionamento di Pavel A. Florenskji a proposito della teologia dell’icona, è efficacemente persuasivo. Nel saggio Iconostas, tradotto in italiano da Elémire Zolla,5 Padre Florenskji medita su due tipi di sguardo: quello dello spettatore posato sull’immagine dipinta, e quello del volto sacro i cui occhi guardano lui. Il primo è uno sguardo prospettico che allaccia il contemplante al contemplato, senza possibilità di alterare la fissità del rapporto soggetto-oggetto; il secondo, afferma Florenskji, è uno sguardo dall’invisibile, aspettivo e non prospettico: chi si sente guardato dal Cristo, la Vergine o i Santi dipinti sull’iconostasi ha valicato il confine tra visibile e invisibile, umano e transumano, esterno e interno. Si tratta di un sottile cambio di percezione, che dipende dalla profondità e l’acutezza con cui la relazione soggetto/oggetto e interno/esterno viene esplorata e consumata. Mentre nella coscienza ordinaria di veglia il “fuori” resta un fuori e il “dentro” un dentro, l’esperienza meditativa apporta un sottile slittamento che rende i confini tra i due piani sorprendentemente permeabili. Il “fuori” si interiorizza – e le forme della natura sono colte nella loro fluida saettante vitalità; immedesimato in ognuna di esse, il meditante ne capta l’aura, ne intercetta il ritmo nascosto. L’albero, la montagna, il fiume, la nebbia, il vento gli sono altrettanto prossimi e affini quanto il battito del proprio cuore. Il “dentro”, a sua volta, si esteriorizza, e la testa e l’intero corpo coi suoi organi e distretti viene visualizzato e percorso immaginativamente come un territorio. La fisiologia taoista ricostruita da K. Schippers nelle sue indagini sul “paese interiore”,6 si regge sulla precisa alterazione del quadro di percezione ordinaria. Nella Introduzione al Buddhismo zen, D. T. Suzuki se ne fa portavoce riportando un famoso enunciato:

Prima che un uomo studi lo zen, le montagne sono montagne e le acque, acque. Ma quando, guidato da un buon maestro, egli arriva a gettare uno sguardo dentro la verità dello zen, le montagne non sono più montagne né le acque, acque. Più tardi, una volta che realmente abbia colto il satori [il luogo della Calma interiore], le montagne sono di nuovo montagne e le acque, acque.7

La pittura di paesaggio zen è un’ulteriore conferma dell’alterazione dello schema in una mente meditativa. Piuttosto che installato di fronte alla scena da ritrarre, il pittore si direbbe trascorra disinvoltamente dal fuori al dentro e dal dentro al fuori, lasciando che l’occhio trasmetta al polso e al pennello quell’indefinibile “tonalità della vita pulsante”, che è il primo dei Sei Canoni della pittura formulati in Cina da Hsieh Ho nel V secolo. La sintonia estetica dell’artista con la natura contemplata ha prodigiosamente interiorizzato l’esterno e esteriorizzato l’interno.8

Seppure fuggevolmente accennati, questi ragionamenti giovano a scrutare il sacro, così prossimo nella visione filosofica indiana all’essere-verità, in un quadro concettuale in cui mente e natura si compenetrano, svolgendo ruoli esotericamente inclusivi dalle due parti.

Note
1) È il caso del teologo tedesco Rudolf Otto (1869-1937) e dello storico delle religioni rumeno Mircea Eliade (1907-1986).
2) Questo aforisma e i due successivi sono tratti da NISARGADATTA MAHĀRĀJ, Io sono Quello. I dialoghi di un sapiente di villaggio, vol. 1, 2, tr. it., Rizzoli, Milano 1981.
3) L’espressione è del Lama Chatral Rimpoche, insigne esponente della tradizione tibetana Dzogchen, allineata all’advaita vedānta indiano nell’indagine sugli stati profondi della coscienza. Il Lama fu uno speciale consigliere di Ian Baker durante la sua prima spedizione nella regione tibetana del Pemako [Vd. infra, e note 14, 15].
4) B. PASTERNÁK, Detstvo Ljuvers, tr. it., Studio Tesi, Pordenone 1984, p. 6.
5) P. A. FLORENSKIJ (1882-1937), definito in tempi recenti il «Leonardo da Vinci» russo, per la straordinaria ampiezza delle ricerche in ambito fisico, chimico, matematico, linguistico e teologico, divenne sacerdote ortodosso, e per questo fu deportato e condannato a morte dai Soviet. Alla sua opera maggiore, La colonna e il fondamento della verità, pubblicata in prima edizione mondiale per iniziativa di Elémire Zolla, presso Rusconi, Milano 1974, si affiancano studi sulla filosofia del Nome, la preghiera esicastica e l’estetica dell’icona, che fanno di Florenskij un pensatore e un mistico dei più audaci e profondi del Novecento europeo. Tradotto e introdotto da Zolla col titolo Le porte regali, Adelphi, Milano 1977, il saggio sull’icona spalanca una prospettiva sull’estetica del sacro e la vista spirituale perfettamente conforme ai canoni indiani e tibetani eplorati da Ananda K. Coomaraswamy (1877-1947) in testi circolanti in Italia dagli anni Settanta presso Rusconi, Adelphi, Luni, SE, Milano, e Stile Regina, Roma.
6) K. SCHIPPER, Il corpo taoista. Corpo fisico – corpo sociale, tr. it., Ubaldini, Roma 1983.
7) Nella prima edizione italiana, Ubaldini, Roma 1970, Introduzione al Buddhismo Zen si avvalse di una illuminante prefazione di C. G. Jung dove il satori zen esplorato da Daisetsu Teitarō Suzuki (1870-1945), era messo a confronto con esperienze non dissimili di unio mystica secondo Meister Eckhart, Jakob Boehme, Emanuel Swedenborg. La battuta citata è alla nota 9 della prefazione di Jung, p. 18.
8) Rinvio in proposito ai miei lavori: Dimensioni esoteriche nel pensiero orientale, «Nuova Civiltà delle Macchine», anno VI, n. 3 (1988) p. 97; «Vie alla consapevolezza dell’arte naturale», G. Sanna, A. Capasso (a cura di), Orienti e Occidenti, Fahrenheit 451, Roma 1997, pp. 76-83.

di Grazia Marchianó